Lavoro over 50: la chiave è l’equilibrio
Il lavoro over 50 è un tema molto dibattuto, soprattutto nei casi in cui le persone, dopo una lunga permanenza in azienda, si ritrovano disoccupate e in cerca di un nuovo impiego. Tuttavia, molte volte questo accade perché i 50enni sembrano non riuscire a stare al passo con un mondo VUCA, sempre più veloce, che talvolta si sposta su piattaforme a loro estranee, come quelle online, fatte di social, web, nuovi programmi complessi da comprendere per chi è nato in un mondo analogico.
Lavoro over 50: alcuni dati
Secondo Il Sole 24 Ore, quella dei disoccupati over 50 è una “platea che si è allargata negli anni della crisi: oggi ne fanno parte quasi 500mila lavoratori, in prevalenza uomini (61%), con una crescita record nel giro di dieci anni, +225%, che ha più che triplicato i 150mila del 2006.”
Un problema che riguarda per la maggior parte persone che si fermano al diploma, non detentrici, apparentemente, di elevate competenze. Infatti, la stragrande maggioranza dei 50 anni non ha le stesse abilità dei nativi digitali e perciò si sente tagliata fuori dal mondo del lavoro contemporaneo o lo è davvero, a causa di licenziamenti o mancati rinnovi.
Rimettere in circolo le competenze
Ma se oggi parliamo tanto di concetti come economia circolare, sostenibilità e rivalutazione delle risorse, spesso i leader non si rendono conto di come tutto questo possa essere applicabile con efficacia anche alle risorse umane. Al di là della laurea o dei percorsi formativi conseguiti negli anni, i cinquantenni forse non avranno le competenze che al momento sono più richieste, o più “di moda”, ma hanno sicuramente dalla loro parte la conoscenza e l’esperienza, cosa che manca completamente a un giovane che si affaccia per la prima volta in azienda. Conoscenza del parco clienti, modalità di approccio e di gestione interna ed esterna, almeno 20 anni di lavoro in cui hanno maturato esperienze importanti, capacità di leggere il contesto in cui operano: tutte skill che un giovane, per quanto possa essere laureato e pieno di nozioni, sicuramente non può avere.
La soluzione? Un giusto equilibrio
Come spesso accade, la soluzione vincente sta nell’equilibrio. Da anni, infatti, i leader che sanno riconoscere il potenziale dei propri dipendenti senior hanno attuato progetti di mentoring e reverse mentoring. In questo modo, i senior trasmettono alle new entry il bagaglio di competenze ed esperienze accumulate nel corso degli anni, mentre i profili junior danno nuova linfa insegnando ad affrontare il mondo digitale. I vantaggi immediati sono per l’azienda il risparmio di ulteriori investimenti nella formazione, perché può organizzarla internamente, ma anche per i dipendenti: un miglioramento nell’ingaggio, e la sensazione di essere utili a tutti i livelli della condivisione del sapere.
Reverse mentoring: serve davvero?
L’inventore del primo programma di reverse mentoring nel 1999 è considerato Jack Welch, ex CEO della General Electric. Fu lui a decidere di connettere i suoi top manager coi giovani impiegati, perché imparassero da loro a usare Internet. Nel tempo, questo approccio si è verificato utile per abbattere i pregiudizi tra vecchio e nuovo, aprire la mente dei dipendenti, creare relazioni, migliorare l’inclusività e la collaborazione, ridurre il turnover. Il reverse mentoring, come ogni nuovo processo aziendale, va monitorato, soprattutto nelle prime fasi, per trovare i giusti metodi e instaurare piani equilibrati.
Uno studio condotto da Moving Ahead ha rilevato che l’87% dei mentori e degli allievi si è sentito potenziato dall’esperienza e ha migliorato la fiducia nelle proprie capacità.
Un famoso esempio di successo? Il CEO Global Reverse Mentor Program di Estée Lauder, fondato da Fabrizio Freda, Presidente e CEO del marchio, nel 2015, che conta più di 650 partecipanti Reverse Mentor, oltre 300 Senior Leadership Participants e oltre 40 programmi.
Ed ecco che il lavoro over 50, da problema diventa un’interessante opportunità di crescita, sia per l’azienda che per i dipendenti coinvolti.